sabato 13 marzo 2010

FEET IN TRANSLATION - Il mio nuovo vicino - sesta parte

per la rubrica


ardua è la strada per diventare un bravo servo!


Il mio nuovo vicino

sesta parte


Paul lavorava nel suo garage già dal primo pomeriggio. Io tornavo dal supermercato. Appena uscito dalla macchina, prima di iniziare a portare in casa la spesa, feci finta di aver perso qualcosa per potermi inginocchiare di fronte al mio padrone, in segno di rispetto.
Dopo aver sistemato la spesa, mi presi un po' di tempo per osservare Paul dalla finestra. Stare lì a guardarlo era un piacere. I suoi movimenti erano così atletici e risoluti. Mi perdevo ad ammirare quei muscoli all'opera. Mi divertiva anche vedere la reazione dei vicini alla vista di Paul. Era arrivato da poco nel quartiere ma aveva attirato l'attenzione di tutti, lavorando in giardino senza maglietta! Sembrava che ognuno sentisse il bisogno di presentarsi, e fare conoscenza, di essere carino con lui. Quando mi trasferii io nello stesso quartiere nessuno venne a salutarmi, nessuno mi portò neanche un cestino di muffins! Invece sembrava che tutti percepissero l'aura che promanava da Paul, sembrava che ognuno volesse essergli vicino per brillare di luce riflessa, almeno un po'.
Tutte quelle attenzioni rallentavano il suo lavoro ma Paul non era certo insensibile all'adulazione.
Arrivarono anche Alan e Karen Waterman. Vivevano un paio di isolati più avanti, nella zona dei “ricchi”. Alan era il figlio di George Waterman, proprietario di una importante ditta di riparazioni idrauliche. Karen era la sua splendida moglie-trofeo. Alan non assomigliava molto al padre. George era brillante ed ingegnoso. Lui invece era un pallone gonfiato, presuntuoso e pieno di sé. Passando davanti al garage di Paul, anche loro non esitarono a fermarsi per fare due chiacchiere. Dopo neanche un minuto sembravano ipnotizzati da lui. Non riuscivano a togliergli gli occhi di dosso, nessuno ci riusciva, in effetti. Conversando, il mio padrone staccò un ramoscello da un albero a cui era appoggiato. Un gesto insignificante che però metteva in risalto il suo braccio possente. Karen era completamente in balìa di Paul mentre Alan, furtivamente, studiava il suo fisico. Ad un tratto notai qualcosa di veramente divertente. Alan, senza neanche accorgersene, chinò la testa più volte di fronte a Paul, sembrava proprio che si inchinasse a lui, con rispetto. Era buffo, non se ne accorgeva neanche ma era chiaramente in suo potere, e anche Paul, ne sono certo, percepiva quella voglia di subordinazione.
Me ne tornai alle mie faccende domestiche. Cercavo di tenere la casa sempre in ordine, volevo che fosse all'altezza del mio padrone in ogni momento avesse avuto voglia di vedere il suo schiavo.
Circa un'ora dopo, Paul entrò in salotto, zuppo di sudore, accaldato, dopo aver lavorato tutto il tempo sotto al sole. Automaticamente baciai i suoi piedi e mi misi in posizione di attesa. Riuscivo a sentire il calore del suo corpo e il profumo del suo sudore, che già cominciava a diventare familiare.
“Leccami il sudore dalle ascelle”, disse semplicemente. Scattai subito in piedi e cominciai a leccare, facendomi strada con la lingua fra i suoi peli. Mi piaceva il suo odore, mi sembrava così incredibilmente “maschile”. Avrei potuto rimanere a leccare per ore. Adoravo sentire i suoi peli sul mio naso mentre raccoglievo con la lingua quel sudore salato. Paul, senza dire niente, prese la mia testa e la spostò facendola affondare nell'altra ascella. Quando ritenne di esser soddisfatto si tolse i pantaloni e gli slip, si mise comodo sul divano e accese la tv. La mia faccia era ancora tutta bagnata del sudore delle sue ascelle. Ero rimasto in piedi, estasiato da quella nuova esperienza. Paul schioccò le dita e indicò il pavimento. Mi inginocchiai fra le sue gambe, la mia faccia era all'altezza del suo pacco.
“Fammi un bel lavoretto con la tua lingua, schiavo”, ordinò. Iniziai a leccare dal basso verso l'alto, cambiando spesso il senso, e inumidendo con cura tutto il glande. Poi mi dedicai alle sue palle. L'odore era intenso ed io ero in paradiso mentre assaporavo ogni centimetro del cazzo del mio padrone.
Ad un tratto Paul tirò le gambe al petto ed io mi ritrovai il suo sedere davanti agli occhi. “Fammi vedere se sei altrettanto bravo a leccarmi il culo!”, disse. Io istintivamente mi feci indietro. Sapevo che quello che mi stava chiedendo il mio padrone era uno dei compiti dello schiavo, ma mi sentivo preso alla sprovvista. Era pulito? Poteva esserlo dopo che Paul aveva passato tutto il pomeriggio a lavorare sotto il sole? Stavo per dire a me stesso che, in ogni caso, non avevo scelta, quando un pugno mi centrò in pieno l'occhio sinistro, stendendomi a terra. Paul fu subito sopra di me. Continuava a colpirmi sul petto e nelle palle mentre io cercavo di rannicchiarmi su me stesso per proteggermi. “Senti, patetico frocetto, non me ne frega un cazzo se pensi che leccarmi il culo sia pericoloso, schifoso o qualsiasi altra cosa passi per la testa di un inferiore come te. Tu ti metti in ginocchio e infili la tua lingua fra le mie chiappe o ti faccio svenire a forza di botte.”
Ero terrorizzato. Il mio padrone si mise di nuovo seduto. Non fece in tempo ad alzare le gambe che la mia lingua era già attaccata al suo sedere. Più leccavo intorno al buco più mi rendevo conto di quanto fosse piacevole. Come tutte le cose di cui avevo paura prima di averle provate, anche questa diventò puro godimento.
Mi vergognavo di aver esitato nell'eseguire un ordine del mio padrone. Avevo infranto una delle regole più importanti della schiavitù, dando a Paul l'impressione che mi facesse schifo l'idea di appoggiare la mia lingua in una parte qualsiasi del suo corpo perfetto. Ero consapevole di essere un inferiore, messo sulla terra per servire maschi dominanti e sapevo che ogni volta che il mio padrone mi permetteva di toccare il suo corpo dovevo sforzarmi di manifestare la consapevolezza di quale onore fosse per me, esaudendo con slancio ogni piccolo gesto che potesse procurare al mio padrone anche un minimo piacere. Avevo fallito come schiavo.
Dopo un po' Paul mi fece raggiungere il bagno, camminando a quattro zampe, come un cane. Si fece una doccia e per me fu davvero una soddisfazione perché entrai in doccia con lui per lavarlo con le mie mani. Cercai di gustarmi ogni momento perché per me erano poche le occasioni in cui poter toccare il suo corpo come avrei voluto. E invece ora potevo sentire i suoi muscoli perfetti sotto le mie mani. Gli confessai quanto lo ammirassi. Il piacere di essere vicino a lui, in quel momento, certamente mi ricompensava del dolore provato solo pochi minuti prima. E, come degna conclusione di quel momento memorabile, Paul decise di pisciarmi addosso. Dopo averlo ringraziato, lo asciugai e lui mi mandò a prendergli i suoi vestiti puliti. Al mio ritorno lo trovai di nuovo sul divano, a guardare la partita. “Padrone”, gli dissi, “scusami ancora per la mancanza di rispetto. Grazie per avermi punito come meritavo”.

Come previsto, un bel livido nero incorniciava il mio occhio già domenica mattina. Il lunedì, in ufficio mi inventai un incidente durante i lavori di giardinaggio. Un ramo che stavo potando mi era franato sull'occhio. Sembrò abbastanza plausibile, anche perché la stessa cosa mi successe per davvero qualche anno prima. Richard però mi prese da parte e pretese che gli raccontassi quello che era successo realmente. Gli confessai che il mio padrone mi aveva dato un pugno in un occhio per essermi rifiutato di leccargli il culo. Dopo avermi riso in faccia, il mio collega se ne andò, sbattendo la porta!
Di ritorno dall'ufficio, quello stesso giorno, trovai un pacco in veranda, ad aspettarmi. Sapevo di cosa si trattasse. Dovevano essere la frusta e il paddle che Paul mi aveva fatto comprare. Non morivo dalla voglia di consegnargli quegli strumenti di dolore ma non avevo scelta. Glieli mostrai qualche ora dopo, e, come temevo, il mio padrone pensò subito di provarli su di me, per puro divertimento. La frusta lasciò qualche ferita sulla mia schiena, che faceva il paio con l'occhio nero. Mi ordinò di appendere al muro, in camera mia, quei due nuovi giocattoli. Così feci, appena se ne andò. Li fissai sul muro di fronte al letto, in modo che fossero le prime cose che avrei visto svegliandomi la mattina, e le ultime andando a dormire. Paul aveva ragione. Incutevano il giusto timore.
Martedì sera, prima delle sette, il padrone era di nuovo a casa mia, ma non aveva molto tempo per il suo schiavo. Mi spiegò che sarebbe arrivata Karen Waterman, di lì a poco. Le aveva dato appuntamento da me per potersela scopare in pace. Quando arrivò, mi mandò nello sgabuzzino ordinandomi di starmene buono e zitto. Sapevo di non aver nessun diritto di essere geloso ma era più forte di me! Dovevo starmene rinchiuso in una stanzetta senza finestre mentre quella puttana se la divertiva con il mio padrone e il suo gran cazzo. Di sicuro l'avrebbe fatta urlare come un animale. Una volta finito, lei se ne andò via in fretta, e Paul mi fece uscire. Ero di cattivo umore ma decisi di sforzarmi per non farglielo notare. Subito dopo avermi liberato se ne andò anche lui, ovviamente senza neanche una parola di ringraziamento. A me toccò solo il compito di ripulire il casino che avevano fatto in camera mia.
Che allegria quando, il giorno dopo, mi si ripresentò la stessa situazione! Io non avevo il pisello del mio padrone nella mia bocca ormai da domenica e ne avevo incredibilmente voglia. Invece dovetti limitarmi a preparare le cose affinché qualcun'altra potesse goderne al posto mio. Ma sapevo che ciò che importava realmente era soltanto il piacere di Paul, quindi eseguii gli ordini, senza fiatare.
Giovedì sera ero nel garage, insieme al mio padrone. Paul voleva finire di mettere a posto la Mustang per poterla regalare a Joe, che compiva gli anni di lì a un mese.
Il ragazzo ci raggiunse per chiedere al padre le chiavi della macchina, ma Paul rifiutò di dargliele dicendo che gli sarebbe servita qualche ora più tardi. Joe allora si rivolse a me. “Dammi le chiavi della tua!”. Dare la mia BMW praticamente nuova di zecca ad un liceale? Neanche per sogno.
“Non posso”, risposi.
“Dammi le chiavi, idiota”, incalzò Joe.
Sperai di trovare nel mio padrone un appoggio. “Non voglio dargli la mia macchina”, dissi, rivolto verso di lui, piagnucolando.
“Dammi quelle chiavi”, disse Paul. Gliele porsi senza ribattere. Lui le passò a Joe e mi disse: “Se riesci a riprendertele, Joe non userà la tua macchina!”
Joe venne verso di me con un ghigno sulla faccia. Mi spinse e poi cominciò a darmi degli schiaffetti in faccia, deridendomi. “Sì, dai, riprenditi le chiavi, frocetto”, mi diceva mentre le faceva penzolare di fronte ai miei occhi. “Dai, sono solo un ragazzino, vado ancora a scuola, tu sei un adulto”. Dopo dieci minuti di tormento e di imbarazzo chinai la testa. Non c'era modo di riprendermi le chiavi. Joe avrebbe potuto schiacciarmi come un insetto. Lui, soddisfatto, si infilò in macchina, fece per andarsene ma si fermò di nuovo di fianco a me, tirò giù il finestrino: “Dammi dei soldi per la benzina, servo”, disse allungando una mano. Dal portafogli tirai fuori venti dollari. “Ancora!”, disse, semplicemente. Gliene diedi altri venti. Tirò su il finestrino. Ingranò la marcia e sgommò via lasciando due strisce nere sul vialetto.
Grazie al cielo, la mia macchina era al suo posto venerdì mattina. Era giorno di allenamento e non avrei saputo come fare altrimenti per arrivare in tempo da Clayton. Trovai le chiavi nel cruscotto. La macchina non sembrava messa male anche se, guardando il sedile posteriore, era evidente che qualcuno ci avesse fatto sesso! Bella storia, per la terza volta in una settimana mi ritrovavo a pulire un casino di “quel” genere.
In palestra, Clayton manifestò il suo disappunto (!) per i miei scarsi progressi nel trattenere il respiro. E io che pensavo che i dieci secondi che ero riuscito a conquistare dalla settimana precedente fossero un buon risultato.
Più tardi, durante l'allenamento, un ragazzo mi squadrò per qualche minuto poi si avvicinò a Clayton. “Dove cazzo hai trovato questo sfigato?”
Clayton, con tutta naturalezza rispose: “È il succhiacazzi di un socio. Mi ha chiesto di rimetterglielo in forma in modo che non si dovesse vergognare di lui”
Non potevo credere che Clayton fosse stato così indiscreto. Dopo tutto ero anch'io un socio, ero anch'io un cliente. E, per di più, gli sganciavo cinquanta dollari extra per ogni seduta, oltre al costo dell'abbonamento. Mi avvicinai a lui e, sforzandomi di essere il più gentile possibile, “Ti sarei grato se non lo facessi più”, gli dissi.
Lui rispose soltanto “Oh, ok!”. Poi mi portò in una delle salette della palestra. Chiuse la porta, delicatamente e, subito dopo, mi attaccò al muro tirandomi su per la maglietta! Mi teneva bloccato. Io ero così impaurito che non provai neanche a ribellarmi. “Stammi a sentire, patetico leccapiedi, schiavo del cazzo, non ti azzardare mai più a dirmi quello che devo o non devo fare. Non prendo ordini da un frocio inferiore come te. Sei tu che prendi ordini da me, sono stato chiaro?”, disse tutto questo urlando come un pazzo. Non sapevo se aver più paura di lui o del fatto che tutti i soci della palestra potessero essere a conoscenza della mia vera natura, da quel momento esatto.
Con un filo di voce mi scusai con Clayton. Giurai che non sarebbe successo mai più.
Cosa mi ero messo in testa? Riprendere il comportamento di un maschio dominante come Clayton? Lo pregai di tornare all'allenamento e, con sollievo, riuscii a portarlo a termine senza irritarlo ulteriormente. Sapevo però che avrei dovuto confessare il mio nuovo errore a Paul e sapevo anche che non ne sarebbe stato affatto contento.
“Signore, credo di dover essere punito un'altra volta”, dissi più tardi quella sera.
“Cos'hai combinato ancora?”, mi chiese Paul, annoiato.
“Mi dispiace molto, Padrone. Ho agito senza pensare. Clayton ha fatto un commento degradante su di me parlando con qualcuno, in palestra, ed io mi sono permesso di farglielo notare”, spiegai. “Lui si è arrabbiato molto. Mi sono scusato con lui e gli ho promesso che non sarebbe più successo.”
“Ok”, disse Paul. “È ora di provare il paddle!”. Mestamente andai in camera da letto e staccai quella paletta formato gigante dal chiodo a cui era appesa e la consegnai al padrone.
“Decidi tu quante”, mi disse, “ma è meglio che il numero sia appropriato o sarà peggio per te.”
Non avevo idea di quale avrebbe potuto essere un numero appropriato per il mio padrone. Dopo un po' mi buttai, “Venticinque, Signore.”
“E siano venticinque, allora”, rispose.
Neanche il tempo di sentirmi sollevato per aver azzeccato la risposta, che già arrivava l'ordine di prendere la posizione. Le braccia di Paul erano incredibilmente forti e lui non si sprecò di certo. Il dolore ad ogni colpo era più forte. Dovevo assolutamente imparare a tenere la bocca chiusa.
Il sabato pomeriggio ero di nuovo nel garage di Paul. Joe mi venne incontro. “Chiavi!”, disse, senza aggiungere altro. Gliele consegnai senza ribattere. “Ah, e non ho tirato l'acqua nel cesso. Te ne occupi tu, giusto?”, la buttò lì mentre andava via, facendomi l'occhiolino!
Quando ritornò, quella sera, Joe si affacciò alla mia porta e gettò le chiavi sul pavimento, senza dire neanche grazie. In più lasciò un borsone pieno di panni sporchi. Erano le uniformi che indossava per il baseball, mutande e calzini. “Passo a prendere tutto domani mattina” e se ne andò, con la certezza che l'indomani avrebbe sicuramente trovato tutto pronto! Joe stava veramente cominciando a prenderci gusto.
Una volta fatta la lavatrice per Joe, mi fermai un momento a riflettere su tutti gli sbagli che avevo commesso in pochi giorni. Pensavo di saper essere un bravo servo e invece continuavo a fare stronzate. Presi la decisione di essere più meccanico nel recepire e nell'eseguire gli ordini da parte di maschi veri e di tenere la bocca chiusa il più possibile. Sapevo di poter essere uno schiavo modello ed avevo intenzione di dimostrarlo.

1 commento:

ΓρεγΚ* ha detto...

Fantastico! Grazie davvero!